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- Pubblicato: Lunedì, 29 Settembre 2014 16:51
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Il quadro normativo e la giurisprudenza fino ad ora prevalente
. Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni la materia delle mansioni oggetto del contratto di lavoro non è disciplinata dall’articolo 2103 c.c., bensì dall’articolo 52 del Decreto Legislativo n. 165/2001, come modificato dall’articolo 62, Decreto Legislativo n. 150/2009 (c.d. Riforma Brunetta) e, naturalmente, dalla specifica normativa contrattuale collettiva.
La normativa legale sopra richiamata, per quanto qui interessa, stabilisce che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento...”.
La differenza rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati – come affermato fino ad ora dalla prevalente giurisprudenza – riguarda l’ambito dello ius variandi che, nel lavoro privato, incontra il limite della equivalenza professionale da verificare sia sotto il profilo oggettivo (e
cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione), sia sotto il profilo soggettivo, che implica l’affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite
dall’interessato durante l’intero rapporto lavorativo.
Invece, si afferma, nell’ambito dell’impiego contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, nell’ipotesi in cui le mansioni attribuite ad un dipendente pubblico siano modificate come conseguenza di un atto amministrativo, il giudice deve avere riguardo solo al criterio
oggettivo, ovvero quello della rispondenza delle nuove mansioni a quelle del livello contrattuale di appartenenza. La Cassazione ha affermato che “la materia della mansioni del pubblico dipendente disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1) assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale in riferimento alla classificazione
prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 cod. civ. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione” (Cass. 5 agosto 2010, n. 18283).
Ciò, sempre stando all’interpretazione della giurisprudenza di legittimità (e anche di molta giurisprudenza di merito) fino ad ora prevalsa, in quanto in tema di pubblico impiego privatizzato, la normativa richiamata sconta “le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore
di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse”. “Conseguentemente, condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita (Cass. 11 maggio 2010, n. 11405) e non sindacabile dal giudice”.
Sempre secondo la costante giurisprudenza, ove si realizzi invece un sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa oppure una non rispondenza delle mansioni assegnate a quelle proprie del livello formale di inquadramento si configura un demansionamento vietato anche nell’ambito del pubblico impiego (per tutte Cass. 21 maggio 2009, n. 11835).
Rilievi critici rispetto alla impostazione giurisprudenziale fino ad ora prevalsa
. Tale impostazione, fedele al dato normativo che invoca una comparazione esclusivamente formale/oggettiva, ci sembra tuttavia
ormai anacronistica e per nulla in linea con lo spirito e gli scopi delle recenti, profonde, mutazioni verificatesi nell’ambito della disciplina
del pubblico impiego.
Si fa in primo luogo riferimento allo stesso Decreto Legislativo n. 165/2001, articolo 1 e al Decreto Legislativo n. 150/2009 che hanno come principali scopi il razionale utilizzo delle risorse umane visto come funzionale al buon andamento della pubblica amministrazione, nonché la “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e l’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”.
Ebbene, per fare solo un rapidissimo excursus di esemplificazioni, in un rapporto in cui è oggi sempre più ritenuto necessario assicurare “elevati standard qualitativi ed economici del servizio tramite la valorizzazione dei risultati e della performance organizzativa e individuale” (art. 2, D.Lgs. n. 150/2009), “la massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione delle performance” (art. 11), in cui si intende valorizzare il merito e la qualità della prestazione lavorativa” (art. 17), in cui si favorisce “la crescita professionale e la responsabilizzazione dei dipendenti pubblici ai fini del continuo miglioramento dei processi e dei servizi offerti” (art. 25), non sembra esserci più spazio per spostamenti e modifiche di mansioni
che non siano rispettose, oltreché del dato formale/oggettivo, anche del dato sostanziale/soggettivo.
Sarebbe infatti molto incoerente sostenere da un lato le ragioni dell’efficienza, ottimizzazione, trasparenza e produttività e poi modificare le mansioni del lavoratore dipendente pubblico senza valorizzarne il bagaglio professionale, l’esperienza maturata e la professionalità concretamente acquisita.
A tali considerazioni va anche ad aggiungersi che, sempre negli ultimi anni, sono intervenute significative disposizioni in tema di benessere
organizzativo nell’ambito della pubblica amministrazione.
Si fa in primo luogo riferimento alla direttiva 24 marzo 2004,, emanata dal Dipartimento della Funzione Pubblica che punta alla realizzazione
ed al mantenimento del “benessere fisico e psicologico delle persone, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori e delle prestazioni”. In tale direttiva si afferma che per lo sviluppo e l’efficienza delle amministrazioni, le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la
creatività e l’apprendimento, l’ergonomia - oltre che la sicurezza - degli ambienti di lavoro, costituiscano elementi di fondamentale importanza ai fini dello sviluppo e dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche. Ed ancora si dice che “per migliorare le prestazioni e gli effetti delle politiche
pubbliche, è importante offrire agli operatori la possibilità di lavorare in contesti organizzativi che favoriscono gli scambi, la trasparenza e la visibilità dei risultati del lavoro, in ambienti dove esiste un’adeguata attenzione agli spazi architettonici, ai rapporti tra le persone e allo sviluppo professionale”.
Analogamente, l’articolo 21 della Legge n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) stabilisce l’istituzione dei Comitati Unici di Garanzia atti a garantire pari opportunità, il benessere di chi lavora e l’assenza di discriminazioni nelle amministrazioni pubbliche.
Alla luce delle considerazioni e le innovazioni normative brevemente richiamate, non si vede come la trasparenza, l’efficienza, la produttività del lavoro pubblico da una parte e il benessere organizzativo dall’altra, affinché non restino solo proclamati sulla carta, possano prescindere dalla
valorizzazione dell’esperienza maturata dal dipendente pubblico sul piano sostanziale/soggettivo.